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Come se Mozart avesse riscritto Wagner


Recensione di “Trilogia del ritorno” di Fred Uhlman

recensione - fred uhlman - trilogia del ritorno
Fred Uhlman, Trilogia del ritorno, Corbaccio

“Qualche anno fa, quando lessi per la prima volta L’amico ritrovato di Fred Uhlman,

scrissi all’autore (da me conosciuto solo di fama come pittore) che giudicavo il suo libro un capolavoro minore. Forse occorrono alcune parole per spiegare l’uso dell’aggettivo di qualità. Intendevo riferirmi alla brevità dell’opera e all’impressione che questo libro, pur avendo come tema la più brutta tragedia della storia dell’uomo, sia stato scritto in un tono minore, nostalgico. L’estensione fa sì che L’amico ritrovato non sia né un romanzo né un racconto, ma una novella, forma letteraria più apprezzata sul continente che in Inghilterra. La novella non ha le dimensioni del romanzo, è priva delle qualità panoramiche di questo, ma non è neppure un racconto, perchè di solito il racconto tratta di un episodio, di un frammento di vita, mentre la novella aspira a essere qualcosa di più compiuto: un romanzo in miniatura. In questo aspetto Fred Uhlman riesce in modo ammirevole: forse perché i pittori sanno adattare la composizione alle dimensioni della tela, mentre purtroppo gli scrittori dispongono di carta a non finire. Uhlman riesce anche a prestare alla narrazione una qualità musicale che è tanto tormentosa quanto lirica. ‘Le mie ferite’, scrive il protagonista Hans Schwarz, ‘non si sono chiuse; pensare alla Germania è come strofinarci sopra del sale’. Eppure i suoi ricordi sono soffusi di struggimento per ‘le dolci, serene colline azzurrognole di Svevia, rivestite di vigneti e coronate di castelli‘ e per ‘la Foresta Nera, dove i boschi scuri, odorosi di funghi e delle lacrime di una resina color ambra, sono solcati da torrenti popolati di trote, con tante segherie sulle sponde’. [Schwarz] è perseguitato e costretto e fuggire dalla Germania, i genitori sono spinti al suicidio, eppure il sapore che indugia sulle nostre labbra dopo la lettura è la fragranza del vino locale, bevuto nelle osterie rivestite di legno scuro sulle rive del Neckar e del Reno. Non c’è nulla della furia di Wagner; è come se Mozart avesse riscritto Il crepuscolo degli dei‘. Scritte nel 1976, queste parole di Arthur Koestler (l’autore del celebre e bellissimo Buio a mezzogiorno) esprimono con la massima chiarezza possibile quella che è l’essenza letteraria non solo de L’amico ritrovato ma anche degli altri due romanzi – Un’anima non vile e Niente resurrezioni, per favore – che compongono la Trilogia del ritorno (Corbaccio, traduzioni di Elena Bona e Bruno Armando), un’unica commossa e amara meditazione su quella che è stata forse la più feroce amputazione causata dal nazismo, quella che ha irrimediabilmente separato coloro che non solo avevano tutti i diritti di considerarsi tedeschi ma che nei fatti lo erano – gli ebrei di Germania, figli legittimi di quella terra che, almeno fino allo sciagurato 1933, a ragione si considerava patria di poeti e pensatori – dalla loro patria, la Germania appunto, diventata, quasi da un giorno con l’altro, molto più di un Paese straniero: un nemico implacabile.

Se è corretto sostenere (ed è senz’altro così) che la dittatura, ogni dittatura, è la negazione di tutto ciò che è umano (di tutto ciò che è nobilmente umano, mi permetto di aggiungere, perché non possiamo dimenticare che tiranni sono gli uomini, così come uomini, pur spaventosamente corrotti nello spirito, sono coloro che la tirannide sostengono, cavalcano, sfruttano, o “semplicemente” non osteggiano, limitandosi a sopportarla, ad accettarla con una rassegnazione che ben difficilmente può essere giustificata ma che, d’altro canto, non è neppure così semplice condannare perché la debolezza non sempre è un peccato, né la viltà ha un unico volto e una sola ragione che possa spiegarla), Uhlman proprio su questa negazione fonda il suo narrare. Le sue storie, a partire dall’entusiasmante amicizia tra il giovane ebreo Hans Schwarz e il coetaneo tedesco di illustrissimi natali Konradin von Hoenfels che l’avvento del regime hitleriano muterà in tragedia (forzando Schwarz a emigrare negli Stati Uniti e arruolando il secondo che poi finirà giustiziato a causa della sua partecipazione al fallito complotto von Stauffemberg), per poi proseguire, nel romanzo successivo (Un’anima non vile), con la lunga lettera che Hoenfels, rinchiuso in prigione in attesa che la sentenza capitale venga eseguita, indirizza al mai dimenticato amico per tentare di spiegare qualcosa che non potrà mai essere chiarito fino in fondo (il precipitare nella follia di una nazione intera, la resa incondizionata della ragione alla bestialità), fino ad arrivare, nell’ultimo lavoro, Niente resurrezioni per favore, al ritorno, forse causale, forse no, dell’ebreo Simon Elsas nella città tedesca che era stata sua, che aveva amato di un amore puro, che gli era stata sotratta (e con essa tutti i suoi anni più belli, più importanti), e che ora ritrova nel dopoguerra rimessa in sesto, di più, vitale, esuberante, proiettata verso un futuro luminoso e di successo, ma nonostante ciò (o forse proprio per questo) fredda, lontana, e nella quale l’incontro con alcune sue vecchie conoscenze non sortisce altro effetto se non quello di rendere ancor più profondo il solco che la malata ideologia del Reich aveva scavato tra “l’autentico popolo tedesco e la più grande minaccia alla sua sopravvivenza, l’ebreo”, non hanno bisogno di guardare da vicino gli orrori indicibili dello sterminio, non sentono la necessità di soffermarsi sui crimini compiuti, non guardano ai milioni di morti, la cui voce pure deve levarsi e non cessare mai di farsi sentire, ma si volgono al sussurro stanco di chi è rimasto vivo anche se ha perduto tutto, di chi, per poter continuare a respirare, a essere corpo, occhi, mani ha dovuto pagare il prezzo più alto e ingiusto: la mutilazione di un’anima.

Gli eroi stanchi, sfiniti di Uhlman non sono che uomini cui è stato portato via ciò che li faceva sentire tali, che come uomini li identificava nel mondo: la spensierata giovinezza, i palpiti d’amore, la purezza dei legami d’amicizia, i sogni ingenui e magniloquenti sul futuro, la morte, così lontana all’orrizzonte, da essere a malapena immaginabile. E un terra da chiamare casa, di cui sentirsi parte. Quel che di loro resta, tramontato (si spera per sempre) il delirio genocida nazista, è un frammento di specchio: guardadoci attraverso non esiste se non ciò che si riesce a vedere: brandelli di uomo, brandelli di mondo, sperduti pezzi di un puzzle che non verrà mai più costruito.

Eccovi l’incipit de L’amico ritrovato. Buona lettura. Buon 25 aprile 2023.

Entrò nella mia vita nel febbraio del 1932 e non ne è mai più uscito. Da allora è passato più di un quarto di secolo, più di novemila giorni, sconnessi e tediosi, resi inutili da un senso di fatica inutile, di lavoro senza speranza: giorni e anni, tanti dei quali morti come foglie secche di un albero morto.

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