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Il principio d’identità


Recensione di “Ferrovie del Messico” di Gian Marco Griffi

recensione - ferrovie del messico - gian marco griffi
Gian Marco Griffi, Ferrovie del Messico, Laurana

“Dopo aver finito di leggere Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi sono andato alla

ricerca della mia vecchia copia di V., il romanzo d’esordio di Thomas Pynchon. Si tratta della riedizione uscita per Rizzoli nel 1992, con la prefazione del celebre critico Guido Almansi. La ragione di questa mia ricerca è banale. il romanzo di Griffi mi ha ricordato quello di Pynchon e mi interessava verificare che il parallelismo non fosse in realtà uno scherzo della memoria […]. Se sostituissimo il titolo del romanzo di Pynchon con quello del romanzo di Griffi la prefazione filerebbe liscia uguale […]. In questo romanzo si avvertono a tutti gli effetti tracce di Gadda, Joyce, Borges, Miller, ecc., e Griffi persegue evidentemente un ideale enciclopedico con questo suo Ferrovie del Messico: oltre un milione di battute per raccontare una trama piuttosto lineare: nei primi mesi del 1944 Cesco Magetti, un milite della Guardia nazionale repubblicana ferroviaria di Asti perseguitato da un terribile mal di denti, riceve dal suo superiore l’assurdo incarico di disegnare una mappa delle ferrovie del Messico. Seguono le avventure che lo porteranno a disegnare la mappa e a uccidere un ufficiale nazista. Se la trama è semplice, Griffi riesce nell’intento di trasformarla in un’epica tragicomica che genera storie su storie, tanto che a un certo punto il lettore si rende conto (non senza un certo sgomento) che, volendo, il libro potrebbe non finire mai […]. La parola chiave, qua, è ‘volendo’. Volendo si può scrivere un libro che contiene tutto“. Così scrive Marco Drago nella postfazione al lavoro di Gian Marco Griffi, un’analisi con la quale concordo forse solo per quel che riguarda il riassunto della trama. Perché se non v’è dubbio che i fatti, sepolti nelle oltre 800 pagine del libro, siano quelli esposti, chi scrive non ravvede, in Ferrovie del Massico, somiglianza alcuna né con il citato capolavoro di Thomas Pynchon, V., né con altri libri dello scrittore americano, cui forse Griffi guarda con ancora maggior attenzione (mi riferisco in special modo a Contro il giorno e a L’arcobaleno della gravità). E questo per la semplice ragione che Griffi non è Pynchon, così come non è nessuno degli altri autori richiamati da Drago (cui aggiungerei anche il magnifico David Grossman di Vedi alla voce: amore, per non parlare, volendo passare dalla letteratura al cinema, di Brazil del Monty Python – se lo sei stato lo sei per sempre – Terry Gilliam). E non lo è allo stesso modo in cui uno scrittore di indubbio talento come il compianto Pier Vittorio Tondelli non era il suo (e mio, mi sia concesso di aggiungere) amatissimo Louis-Ferdinand Céline. Cosa voglio dire con questo? Prendete un bel libro come Altri libertini, leggete uno dei racconti che contiene, La casa!… La casa!: vi accorgerete subito che si tratta di un omaggio allo scrittore francese, un omaggio dichiarato, scoperto, evidente al tal punto da farsi mimesi: Tondelli vuole provare a scrivere come scriveva Céline, vuole vedere se riesce a usare nello stesso modo in cui li usava Céline i famosi (famigerati? scegliete l’alternativa che preferite) tre puntini di sospensione, curvare il proprio stile fino a farlo diventare lo stile di un autore che ama per capire quanto davvero gli si può avvicinare, qual è il segreto letterario che permette alla forma di farsi contenuto. Questo racconto, sempre secondo il modesto giudizio di chi scrive, è il solo non riuscito del libro. Può succedere, niente di male. Tondelli ha provato e così ha saggiato i propri limiti, Non gliene voglio per questo, anzi.

A Griffi invece un po’ ne voglio. E non perché il suo lavoro non sia divertente (a tratti lo è moltissimo), non perché non si legga con piacere, non perché non sia scritto bene (è scritto fin troppo bene), ma perché a mio avviso non è del tutto onesto (onesto letterariamente, s’intende). Griffi ama Pynchon, di certo ama Borges (e più precisamente il Borges di Finzioni, e in Finzioni il Borges del racconto che conclude il volume, Il giardino dei sentieri che si biforcano; e immagino che parlando di Finzioni, o meglio di edizioni italiane del libro, la sua preferenza vada a quella, celeberrima, di Einaudi, tradotta da Franco Lucentini) e ama Gadda, ma i suoi richiami a tutti questi autori (e ad altri ancora) non sembrano omaggi, o debiti di riconoscenza confessati, somigliano invece più a narcisistici esercizi di stile. Pynchon scriveva romanzi-mondo? Benissimo, posso farlo anche io (peccato che Pynchon nei suoi romanzi-mondo non abbia mai fatto sfoggio del suo sapere né letterario, né storico, e non sono pochi gli episodi di storia dimenticata e tragica da lui raccontati, né scientifico); Gadda si dilettava con le acrobazie linguistiche? Ci sono pagine di Ferrovie del Messico, sembra suggerirci l’autore, che rivaleggiano senza timore con l’ingegnere-scrittore (solo che non è proprio così, perché in Gadda armonia, musicalità e ironia trovano nelle pagine di romanzi e racconti un equilibrio non forzato che non va perduto neppure quando il lettore, che Gadda non si premura di non affaticare, anzi, perde l’orientamento, e capita sovente che lo perda anche se poi infallibilmente lo ritrova). E gli esempi potrebbero continuare.

“Essere lirici e ironici è la sola cosa che ci protegge dalla disperazione assoluta” ammonisce Griffi. E sia. Ma si permetta di chiedere: fino a che punto? Fino a dove? In Ferrovie del Messico tutti, tutti senza eccezione sono lirici e ironici, tutti sono coltissimi, anche gli ignoranti, anche gli analfabeti, tutti sono saggi, perfino gli stupidi; il mondo, o se si vuole la piccolissima porzione d’Italia fascista e antifascista che ospita questa storia, è popolato da un’umanità che meriterebbe statue bronzee che la ricordino; perfino a leggere i vigliacchi delatori che non si fanno scrupolo di denunciare i loro vicini di casa (o i loro pazienti nel caso di specie) si rimane ammirati dalla proprietà di linguaggio, finanche il maggiordomo di un nobilastro che detesta chiunque non sia egli stesso può trasformarsi in un uomo libro da Fahrenheit 451 (a proposito, eccone un altro, Ray Bradbury); addirittura Eva Braun ha statura di finissima (se non finissima di certo astuta) pensatrice. E a che scopo? Per divertire? Ci si diverte fino a un certo punto. Per stupire? Vale quanto appena scritto per il divertimento. Per strappare applausi? Anche i più lunghi battimani hanno una fine, e qui si smette di applaudire ben prima di arrivare a pagina ottocento e qualcosa.

In una parola, Griffi pare volerci convincere della sua bravura ripetendosi, quasi a ogni pagina, quanto è dotato e talentuoso. Una cosa che Pynchon non ha mai fatto, e che forse anche lui potrebbe non aver bisogno di fare. In ogni caso, in bocca al lupo per il Premio Strega.

Eccovi l’incipit. Buona lettura a chi deciderà di leggerlo.

Era un brutto periodo. Ennio aveva disertato, a Luigi Bocca avevano sparato per sbaglio al lobo di un orecchio, il maestro Pozzi aveva perso tre dita della mano destra e bestemmiava ogni volta che armeggiava per scrivere con la sinistra.

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